Il 12 marzo 2025 è iniziata la guerra commerciale tra Stati Uniti e Unione Europea, scatenata dal presidente statunitense Trump. È il giorno in cui entrano i vigore i dazi statunitensi del 25% sull’acciaio e l’alluminio importati dai Paesi europei. In risposta, Bruxelles ha annunciato contromisure tariffarie “forti ma proporzionate” su prodotti americani per un valore di 26 miliardi di euro. Il conflitto, oltre a minacciare la stabilità delle catene di approvvigionamento transatlantiche, solleva interrogativi sulla tenuta del partenariato economico più rilevante al mondo, valutato in 1,6 trilioni di euro di scambi bilaterali nel 2023
Questa non è la prima guerra dei dazi tra Usa e UE. Durante la prima amministrazione Trump (2017-2021) gli Stati Uniti imposero dazi del 25% sull’acciaio e del 10% sull’alluminio in base alla Sezione 232 del Trade Expansion Act del 1962, giustificati da presunti rischi per la sicurezza nazionale. L’UE reagì allora con contromisure su 2,8 miliardi di euro di merci Usa, incluse motociclette Harley-Davidson, bourbon e jeans Levi’s, in un braccio di ferro risolto parzialmente con l’Accordo Tariffario del 2020. Quel patto, però, sospese anziché eliminare le tariffe, creando una tregua fragile che si è interrotta oggi.
Secondo Trump, il surplus dell’UE nelle merci (157 miliardi di euro nel 2023) è una minaccia, nonostante rappresenti solo il 3% del volume totale degli scambi e sia compensato dal deficit europeo nei servizi (109 miliardi). La prima fase dei dazi europei inizierà il primo aprile su merci per un valore di 4,5 miliardi di euro, colpendo motociclette Harley-Davidson, bourbon, tabacco e succo d’arancia e la seconda sarà attivata entro il 13 aprile su merci dal valore di 21,5 miliardi di euro, comprendendo carne bovina, pollame, prodotti caseari, soia, legname e beni industriali (elettrodomestici, utensili, materie plastiche).
La scelta di questi prodotti non è casuale. La Commissione Europea ha scelto beni simbolici per stati a maggioranza repubblicana, come la Louisiana (soia), il Nebraska (carne) e il Wisconsin (latticini), rendendo così massimo l’impatto politico interno negli Usa. Parallelamente, l’UE sta diversificando gli approvvigionamenti, ad esempio sostituendo la soia statunitense con quella brasiliana. Secondo la Commissione, questa proporzionalità rispetta le regole dell’Organizzazione Mondiale del Commercio. Tuttavia, il commissario al Commercio Maroš Šefčovič ha ammesso che anche l’economia europea subirà contraccolpi, soprattutto nei settori dipendenti da acciaio e alluminio statunitensi.
La frammentazione delle catene di fornitura transatlantiche apparirà presto. Infatti, le aziende europee che importano componenti in alluminio dagli USA stanno cercando fornitori in Medio Oriente e Asia, con aumenti dei costi logistici fino al 20%. Nello stesso tempo, produttori americani di motori e macchinari stanno valutando delocalizzazioni in Messico o Canada per evitare i dazi UE. Quest’ultima ha incaricato il commissario Šefčovič di avviare colloqui tecnici entro marzo, puntando a una sospensione reciproca dei dazi.
Se i negoziati dovessero fallire, le stime prevedono una riduzione del 3,7% del commercio UE-Usa entro il 2026, con perdite di Pil dello 0,8% per l’UE e dell’1,2% per gli Usa; il rialzo inflazionistico del 2,1% nell’Eurozona e del 3,4% negli Usa, trainato da acciaio, automobili e beni di consumo; alcune delocalizzazioni industriali verso il Sudest Asiatico e il Nord Africa, con perdita di 250mila posti di lavoro diretti in Europa.
In prospettiva, una guerra commerciale tra Usa e UE potrebbe anche modificare i flussi di rifornimento europeo di gas naturale, che già sono stati sconvolti dalla guerra in Ucraina, rendendo gli Stati Uniti il principale fornitore di gas naturale liquefatto dell’Europa (pari al 70% del totale) a causa delle sanzioni nei confronti della Russia. Secondo Drewry, l’Europa potrebbe aumentare le importazioni da Qatar e dall’Africa e magari dalla Russia, nel caso che si raggiunga un accordo sulla guerra. Bisogna ricordare che l’afflusso di Gnl russo non è mai stato completamente interrotto e nel 2024 ha raggiunto 17,8 milioni di tonnellate.
Il favorito è il Qatar, che sta aumentando l’estrazione di gas naturale, grazie anche al più grande giacimento del mondo, il North Field, che entro il 2030 potrà produrre 142 milioni di tonnellate di Gnl. La Russia potrebbe diventare il fornitore privilegiato dei Paesi dell’Europa orientale. Resta penalizzata l’Africa, a causa di scarsa manutenzione degli impianti e la carenza d’infrastrutture.