Il 31 luglio 2025 il presidente statunitense Trump ha portato un po’ di chiarezza sui dazi emettendo l’ordine esecutivo sui “dazi reciproci” con applicazione dal 7 agosto 2025, che corregge gli annunci della scorsa primavera con i risultati delle trattative. Il testo riporta le nuove tariffe, con l’eccezione della Cina, per cui resta ancora valido l’ordine esecutivo del 12 maggio 2025. Sono esclusi anche Canada e Messico, che hanno l’esenzione dai dazi dei prodotti compresi nell’accordo Usmca e che hanno un periodo di novanta giorni per negoziare le tariffe sugli altri.
A differenza di quanto annunciato ad aprile, il nuovo schema non introduce un automatismo bilaterale che premi o punisca i partner in base a ciò che impongono ai prodotti statunitensi, ma è diventata un’architettura per elenco. Quindi, i dazi addizionali sono definiti Paese per Paese attraverso nuove voci della Harmonized Tariff Schedule, che sostituisce parte della precedente. Per i Paesi non menzionati espressamente nel nuovo elenco resta il dazio generalizzato del 10% già previsto ad aprile. L’Allegato I all’ordine esecutivo ripartisce aliquote molto diverse: si va da aumenti del 10% per alcuni Paesi fino a punte oltre il 30% per altri. Non c’è uniformità regionale, e l’Africa, ad esempio, non è trattata come blocco omogeneo: le aliquote variano in modo sensibile tra i singoli Stati.
Un capitolo a parte riguarda l’Unione Europea, per cui non c’è una percentuale fissa aggiuntiva, ma una regola di “adeguamento” alla soglia del 15% ancorata alle aliquote Mfn (Most-Favored Nation) della colonna “Column 1 – General” della Htsus. In pratica, se un bene europeo sconta un dazio Mfn inferiore al 15%, gli Stati Uniti applicano un extra che porta l’aliquota complessiva al 15%; se il Mfn è già pari o superiore al 15%, non scatta alcuna aggiunta. L’ordine precisa anche come trattare i dazi specifici o composti: in questi casi occorre calcolare l’equivalente ad valorem del Mfn per applicare correttamente la regola. In termini concreti, molte categorie europee a Mfn basso - dai componenti industriali a diverse voci dell’elettronica e della chimica - vedranno la tariffa “rincalzata” fino al 15%, mentre le voci già oltre soglia non subiranno aggravi.
Un ulteriore tassello è la clausola di raccordo con eventuali intese bilaterali: per alcuni Paesi che hanno concluso, o stanno per concludere, accordi con Washington, le aliquote previste nell’Allegato I rimangono in vigore fino a quando ordini successivi non recepiranno formalmente i nuovi termini. Ciò conferisce all’esecutivo ampia flessibilità per modulare il regime in funzione del negoziato.
Il calendario di applicazione è stringente ma prevede una finestra di respiro logistico. Le nuove misure entrano in vigore sette giorni dopo la firma, dunque il 7 agosto 2025. Le merci caricate all’estero prima di tale data e sdoganate negli Stati Uniti entro il 5 ottobre 2025 possono però continuare a beneficiare del regime precedente; oltre quella soglia temporale il nuovo impianto diventa pienamente operativo. A tale proposito, l'ordine esecutivo ha un allegato per l'applicazione in vari casi.
Sul fronte dell’integrità del sistema, il provvedimento irrigidisce il contrasto alle pratiche di elusione, in particolare al transhipment finalizzato ad aggirare le tariffe passando da Paesi terzi. Quando l’autorità accerta un trasferimento realizzato per eludere i dazi, si applica un ulteriore 40% addizionale che si somma alla tariffa ordinaria e che non può essere oggetto di mitigazione o remissione da parte della Customs and Border Protection. A supporto di questa norma, il Governo pubblicherà ogni sei mesi un elenco di stabilimenti e giurisdizioni coinvolti in schemi elusivi, con la possibilità di aggiornare rapidamente la risposta sanzionatoria.
L’attuazione e la manutenzione del nuovo quadro sono affidate a un coordinamento inter-agenzia che coinvolge il Dipartimento del Commercio, il Dipartimento della Sicurezza Interna (con il Cbp) e l’Ufficio del Rappresentante per il Commercio. Questi soggetti possono emanare regole operative, proporre modifiche alla Htsus tramite il Federal Register e raccomandare aggiustamenti in base agli effetti osservati, compreso l’eventuale inasprimento o allentamento delle misure in risposta a ritorsioni o a risultati economici divergenti dagli obiettivi.
Per gli operatori le ricadute sono concrete già in bolla doganale. Ogni spedizione dovrà riportare, oltre alla voce merceologica ordinaria, la corrispondente voce 9903.02.xx relativa al Paese d’origine. Gli importatori con esposizione verso l’UE dovranno verificare con precisione la classificazione Htsus e l’aliquota Mfn di ciascun prodotto per applicare il meccanismo del “top-up” fino al 15%, calcolando ove necessario l’equivalente ad valorem per i dazi specifici o composti. Al tempo stesso, diventa cruciale documentare l’origine con rigore, perché le sanzioni per transhipment non solo sono elevate, ma soprattutto non ammettono margini di clemenza amministrativa.
I Paesi con dazi inferiori al 15% sono solo tre, e tutti al 10%: Brasile, Isole Falkland e Gran Bretagna. Il gruppo con dazi al 15% comprende 40 Paesi (considerando l’Unione Europea come unica entità), tra cui molti africani, mentre la lista di quelli soggetti a percentuali superiori conta 26 Paesi, molti dei quali asiatici. Si spazia da un minimo del 18% del Nicaragua fino a un massimo del 41% della Siria. Tra questi troviamo la Svizzera, penalizzata col 39% non si sa per quale motivo, e la Serbia al 35%.
Fin qui i termini della nuova normativa, quattro mesi dopo il “Liberation day” in cui Trump annunciò la rivoluzione dei dazi. In questo periodo l’economia globale non ha subito forti scosse, soprattutto perché ha “ammortizzato” le decisioni volubili di Trump accelerando e rallentando le esportazione. Ma ciò ha stressato la filiera logistica. Questo decreto attuativo dovrebbe fornire un minimo di stabilità, ma senza garanzie, perché solo una cosa appare certa: che Trump sta usando i dazi non come regolatore dell’economia, ma come arma per condizionare le politiche interne ed estere degli altri Paesi. Quindi potrebbe cambiarli in qualsiasi momento, secondo le sue opportunità
Restano comunque un paio d’incertezze. La prima riguarda alcune tipologie di prodotti, per le quali Trump ha rimandato la decisione sui dazi. Sono prodotti importanti per l’economia e i cittadini, tra cui spiccano i farmaci, i semiconduttori, i alcuni minerali altri prodotti fondamentali per la produzione. La seconda incertezza riguarda la legittimità dei dazi stessi, perché i tribunali statunitensi stanno valutando se per imporli in modo così generale basti un ordine esecutivo e sia necessaria l’approvazione del Congresso.
L’applicazione di questi dazi cambierà l’economia di molti Paesi e la stessa architettura del commercio globale. Ma colpirà anche i cittadini statunitensi. Applicando i risultati del modello utilizzato dalla Federal Reserve nella guerra commerciale scatenata dalla prima presidenza di Trump, Bloomberg Economics calcola che l'aumento di 12,8 punti percentuali del dazio medio, da quando Trump è tornato al potere, potrebbe ridurre il Pil degli Stati Uniti dell'1,8% e aumentare i prezzi core dell'1,1% in un periodo di due o tre anni.
L’aumento dei prezzi negli Stati Uniti dipenderà da come i dazi si distribuiranno lungo la filiera, che comprende all’estero i produttori e gli esportatori e negli Stati Uniti gli importatori e la catena distributiva (oppure i prodotti che usano componenti o semilavorati provenienti dall’estero). Gli analisti prevedono che ci sarà comunque una certa ricaduta diretta o indiretta sui consumatori statunitensi e ciò spinge la Fed a evitare per ora una riduzione dei tassi d’interesse. C’è poi il rischio per i produttori Usa della creazioni di barriere tariffarie sulle loro merci. Insomma, la partita è ancora aperta.
La lista dei Paesi colpiti dai nuovi dazi, divisi per aliquota
10%
Brasile, Isole Falkland, Regno Unito
15%
Afghanistan, Angola, Bolivia, Botswana, Camerun, Ciad, Costa Rica, Costa d'Avorio, Ecuador, Emirati Arabi Uniti, Figi, Ghana, Guyana, Islanda, Israele, Giappone, Giordania, Lesotho, Liechtenstein, Madagascar, Malawi, Mauritius, Mozambico, Namibia, Nauru, Nigeria, Macedonia del Nord, Norvegia, Papua Nuova Guinea, Repubblica Democratica del Congo, Corea del Sud, Trinidad e Tobago, Turchia, Uganda, Vanuatu, Venezuela, Zambia, Zimbabwe, Guinea Equatoriale
18%
Nicaragua
19%
Cambogia, Indonesia, Malesia, Pakistan, Filippine, Thailandia
20%
Bangladesh, Sri Lanka, Taiwan, Vietnam
25%
Brunei, India, Kazakistan, Moldova, Tunisia
30%
Algeria, Bosnia ed Erzegovina, Libia, Sudafrica
35%
Iraq, Serbia
39%
Svizzera
40%
Laos, Myanmar (Birmania)
41%
Siria































































