Il 14 luglio, la Corte di Cassazione ha depositato la sentenza numero 25729/2025, che illustra le motivazioni della decisione di confermare le condanne d’Appello nei confronti di cinque imputati al processo sul grave incidente stradale che il 28 luglio 2013 causò la morte di quaranta passeggeri di un autobus precipitato dal viadotto Acqualonga dell’autostrada A16. Un sentenza che non solo segna la fine di un lungo percorso giudiziario, me che segna un passaggio importante per stabilire le responsabilità dei vertici delle società autostradali in caso d’incidenti causati da carenze nella manutenzione dell’infrastruttura.
Alla base della vicenda c’è l’incidente. Intorno alle 20.30 del 28 luglio 2013 un pullman turistico con 48 persone a bordo che trasportava turisti di ritorno da una gita a Telese Terme e Pietrelcina subì la rottura del giunto cardanico dell'albero di trasmissione, che danneggiò irrimediabilmente l'impianto frenante. Il mezzo divenne ingovernabile e, dopo aver percorso circa un chilometro tamponando diverse automobili, urtò le barriere di protezione del viadotto che cedettero, causando la caduta del bus da un'altezza di circa trenta metri. Il bilancio fu di quaranta morti e otto feriti gravi, in quello che è considerato il più grave incidente stradale mai avvenuto in Italia.
Oltre che il titolare dell’autobus e un funzionario della Motorizzazione Civile (che attestò una revisione del mezzo mai avvenuta) furono indagati anche Castellucci a alcuni dirigenti di Autostrade perché le indagini tecniche sull’incidente rivelarono gravi carenze sulla manutenzione dei guardrail del viadotto. La perizia del professor Felice Giuliani dell'Università di Parma, nominato dalla Corte, concluse che "la strage del viadotto dell'Acqualonga dell'Autostrada A16 è risultata tale per difetto di risposta strutturale della barriera New Jersey bordo ponte". I rilievi tecnici mostrarono che più della metà dei bulloni che assicuravano l'ancoraggio delle barriere sulla carreggiata era corrosa dal tempo e dagli agenti atmosferici. Lo stato complessivo dei collegamenti verticali era tale da aver ridotto "ad apporto irrilevante se non nullo, il contributo fondamentale degli stessi tirafondi all'equilibrio e al meccanismo dissipativo della barriera".
La perizia attestò quindi che con una corretta manutenzione il guardrail avrebbe sostenuto l'impatto dell'autobus, impedendone la caduta. Questo elemento è stato determinante per l'attribuzione delle responsabilità ad Autostrade per l'Italia e ai suoi dirigenti, in particolare all'ex amministratore delegato Giovanni Castellucci. Il percorso processuale è stato complesso e tortuoso. In primo grado, il 10 aprile 2019 Tribunale di Avellino assolse Castellucci, e altri dirigenti della società, affermando che non vi fosse stata alcuna violazione concreta di regole cautelari e che non si potesse configurare una responsabilità penale semplicemente in base alla posizione ricoperta.
Però il 28 settembre 2023 la Corte d’Appello di Napoli ribaltò completamente questo l’esito, condannando Castellucci a sei anni di reclusione. I giudici di secondo grado hanno ritenuto che la programmazione degli interventi di riqualificazione delle barriere bordo laterale fosse una scelta rientrante nell’area strategica di competenza dell’amministratore delegato, quindi di sua diretta responsabilità. Gli avvocati della difesa ricorsero in Cassazione, che però ha confermato l’impostazione dei giudici d’Appello.
La sentenza 25729/2025, oltre a confermare le condanne, stabilisce principi giuridici di portata generale, destinati a incidere a lungo sulle modalità con cui si interpreta la responsabilità penale nel mondo dell’impresa, in particolare in settori regolati e ad alta rilevanza pubblica come quello delle infrastrutture. In primo luogo, la Corte ha affermato che la posizione di garanzia dell’amministratore delegato in materia di sicurezza è connaturata al ruolo stesso e non può essere interamente trasferita attraverso meccanismi di delega. Le responsabilità che riguardano la definizione delle strategie, la scelta e l’allocazione delle risorse finanziarie e la supervisione dell’intero sistema organizzativo rimangono sempre in capo alla figura apicale, anche qualora compiti esecutivi siano stati affidati ad altri dirigenti.
Altro elemento chiave della sentenza è il richiamo all’articolo 14 del Codice della Strada, che rappresenta la fonte primaria dell’obbligo di manutenzione per i concessionari autostradali. Secondo la Suprema Corte, tale obbligo non si esaurisce negli interventi ordinari, ma include anche attività straordinarie di riqualificazione e un impegno a migliorare le prestazioni delle infrastrutture, con l’obiettivo di tutelare in modo concreto la sicurezza degli utenti. In questo contesto, l’omessa inclusione del viadotto Acqualonga nel piano di interventi straordinari – un piano che prevedeva un investimento complessivo di 138 milioni di euro – è stata considerata una scelta strategica direttamente riconducibile a Castellucci.
La Corte ha inoltre introdotto un’interpretazione estensiva dell’aggravante prevista dall’articolo 589 del Codice Penale, riconoscendo che essa può essere applicata anche a soggetti che, pur non partecipando direttamente alla fase di circolazione stradale, sono titolari di obblighi di garanzia nei confronti della sicurezza degli utenti. Si tratta di un’estensione significativa del concetto di responsabilità penale per colpa, che rafforza l’idea secondo cui chi guida una società non può sottrarsi alle conseguenze delle scelte – o delle omissioni – che incidono sulla sicurezza pubblica.
Nel caso specifico, oltre a Castellucci, sono stati condannati anche altri dirigenti di Autostrade per l’Italia. Le responsabilità sono state distinte in base al livello gerarchico e alla natura delle mansioni. I dirigenti operativi, come il direttore di tronco Paolo Berti e il direttore generale Riccardo Mollo, sono stati ritenuti responsabili per la gestione concreta del sistema di manutenzione e controllo. Anche in presenza di deleghe formali, la Corte ha chiarito che la figura apicale conserva un potere-dovere di sorveglianza e d’intervento sostitutivo, che impedisce di attribuire le mancanze esclusivamente ai sottoposti.
Il quadro delle condanne restituisce l’immagine di una responsabilità diffusa, ma con un chiaro fulcro nei vertici aziendali. Su undici imputati, nove appartenevano ad Autostrade per l’Italia e sono stati condannati complessivamente a cinquantasette anni di carcere. Le pene più severe sono state inflitte proprio a coloro che ricoprivano ruoli di vertice, ma non sono mancate condanne rilevanti anche per operatori tecnici e soggetti esterni coinvolti nella catena decisionale e operativa.
Il rilievo della sentenza non si esaurisce nella sfera penale individuale, ma investe il modo stesso di concepire il governo delle società concessionarie. Da ora in avanti, gli amministratori delegati dovranno porre particolare attenzione alla tracciabilità delle decisioni, alla chiarezza delle deleghe, alla solidità dei controlli interni e alla coerenza tra le risorse stanziate e gli obiettivi dichiarati in termini di sicurezza. La Cassazione impone un principio di responsabilità piena, che travalica la formalità degli organigrammi e si fonda sulla sostanza delle scelte e delle omissioni.
Non mancano, da parte della difesa, perplessità su un possibile eccesso di estensione della responsabilità penale, che rischierebbe di trasformare le figure dirigenziali in garanti assoluti, responsabili per qualunque disfunzione, anche di natura tecnica. Tuttavia, la Corte ha chiarito che, nel caso delle infrastrutture, l’organizzazione aziendale stessa diventa il terreno su cui si misura la colpa: una carenza strutturale, un difetto di programmazione o un’insufficienza nei controlli possono configurare una colpa di organizzazione, per la quale il vertice non può esimersi dal rispondere.































































