Il presidente statunitense Trump ha posto il primo agosto come termine ultimo per le trattative con i singoli Stati sui dazi alle importazioni, ma alla vigilia di tale data il commercio e la logistica globali, compresi gli operatori statunitensi, sono in piena nebbia normativa. Il risultato della rivoluzione trumpiana è un misto di pressioni geopolitiche, tensioni economiche e confusione operativa per importatori e operatori logistici.
In primo luogo, non è chiaro quali percentuali saranno applicate. Nelle scorse settimane, Trump ha annunciato accordi con alcuni Paesi, per i quali ha fissato diverse percentuali. Per esempio, la Gran Bretagna ha ottenuto il 10%, la Corea del Sud il 15% e l’India il 25%. Altre intese sono state raggiunte con Thailandia, Cambogia, Malesia e Taiwan e nella maggior parte dei casi i Paesi hanno dovuto subire le decisioni statunitensi, non avendo la possibilità di una negoziazione paritaria. Però ci sono ancora tanti Stati che non hanno neppure potuto trattare e non sanno quindi che succederà alle spedizioni verso gli Usa.
A parte è il caso dell’Unione Europea, che durante un colloquio tra Trump e la Von der Leyen ha ottenuto un dazio generalizzato del 15% (salvo per acciaio e alluminio, dove l’aliquota resta al 50%). In realtà la situazione è apparsa poche ore dopo l’annuncio molto più complessa. In primo luogo perché le dichiarazioni statunitense ed europea non coincidono e poi perché la Commissione Europea deve comunque ricevere la ratifica degli altri organi comunitari (Europarlamento e Consiglio d’Europa) per firmare un accordo definitivo e applicarlo. E i Governi hanno avuto reazioni molto diverse, prefigurando un spaccatura all’interno dell’Unione.
La Francia si è distinta per la più severa opposizione all'accordo. Il primo ministro François Bayrou non ha utilizzato mezzi termini, definendo l'intesa "un giorno buio" e accusando l'Europa di essersi "sottomessa" agli Stati Uniti. Il presidente Emmanuel Macron ha espresso una critica altrettanto severa durante un Consiglio dei ministri, dichiarando che l'UE "non è stata temuta abbastanza" nei negoziati. "Per essere liberi, bisogna essere temuti. Non siamo stati abbastanza temuti", ha affermato, aggiungendo che "questa non è la fine della storia, non ci fermeremo qui".
La Germania ha mostrato una posizione più complessa. Il cancelliere Friedrich Merz si è dichiarato "insoddisfatto" dell'accordo, avvertendo che "l'economia tedesca subirà un danno considerevole". Tuttavia, ha riconosciuto l'importanza di evitare "un'inutile escalation" delle relazioni commerciali transatlantiche. La Germania, pur beneficiando della riduzione dei dazi automobilistici dal 27,5% al 15%, ha espresso preoccupazioni per l'impatto sui suoi 161 miliardi di euro di esportazioni verso gli Stati Uniti. La Confindustria tedesca ha criticato sia il merito che il metodo della negoziazione condotta dalla Commissione.
Il governo italiano ha adottato un approccio più diplomatico. La prima ministra Giorgia Meloni ha definito l'accordo "positivo" ma ha sottolineato la necessità di analizzare i dettagli. Il governo italiano ha descritto l'intesa come una "soluzione negoziata" che ha evitato "la trappola di uno scontro frontale", definendo la base dell'accordo "sostenibile" purché il dazio del 15% non si sommi a quelli esistenti. Il ministro degli Esteri, Antonio Tajani, ha risposto alle critiche francesi ricordando che "l'accordo lo ha fatto tutta l'Europa, quindi anche la Francia".
Il primo ministro spagnolo Pedro Sánchez ha espresso un sostegno tiepido all'accordo, dichiarando di appoggiarlo "senza entusiasmo". Sánchez ha apprezzato "l'approccio costruttivo" della Von der Leyen ma ha mantenuto una posizione di cautela. Il suo omologo ungherese Viktor Orbán ha fornito uno dei commenti più coloriti, affermando che "Donald Trump non ha raggiunto un accordo con Ursula Von der Leyen, ma piuttosto si è mangiato la presidente della Commissione europea a colazione".
Ma c’è una forte confusione anche sull’altra sponda dell’Atlantico e in questo caso riguarda i risvolti operativi. In pratica, i settori della logistica e del commercio non sanno che fare dal primo agosto, perché a poche ore dalla scadenza mancano dettagli essenziali: a quali merci si applicano i nuovi dazi, da quando decorrono, e se valgono anche per le spedizioni già in transito. “Se non arriva una notifica formale entro il 1° agosto, dobbiamo usare le tariffe di aprile? O quelle attuali? Nessuno lo sa”, ha dichiarato a Bloomberg Cindy Allen, amministratrice delegata della società di consulenza Trade Force Multiplier.
Anche i funzionari dell’agenzia statunitense Customs and Border Protection, che ha il compito di applicare i dazi, non hanno le idee chiare e certo non possono agire sulla base di post su Truth Social o comunicati ufficiosi: serve un ordine esecutivo ufficiale. Sempre secondo Bloomberg, il sistema informatico Ace, che gestisce le dichiarazioni doganali, non è ancora aggiornato. I broker doganali devono spiegare normative in continua evoluzione e a consigliare strategie per ridurre, posticipare o evitare i dazi. Il rischio per le imprese è alto: fatture impreviste, errori nella classificazione doganale e sanzioni milionarie. Alcune aziende hanno scoperto di dover pagare milioni di dollari per aver applicato esenzioni non autorizzate, a causa di bug nei sistemi.
Di fronte a tanta incertezza, molte imprese di spedizione e logistica stanno cambiando tattica. Invece di importare interi container, frammentano le spedizioni in carichi più piccoli via aerea o su pallet per evitare di incorrere in dazi elevati su interi lotti. C’è poi la questione della legittimità dei dazi. Un Tribunale federale deve valutare se si possono applicare con i poteri d’emergenza del presidente, oppure se è necessaria una votazione del Congresso. E se il verdetto giudicasse illegittimi i dazi, le Dogane statunitensi potrebbero essere costrette a rimborsare tutte le entrate incassate con le cosiddette “tariffe reciproche”, ma nessuno sa ancora come.




























































