Tra i Paesi dell’Unione Europea esistono dazi? Ovviamente no, perché sono stati eliminati dal 1968, quando entrò in vigore l’unione doganale tra i sei Paesi fondatori della Comunità Economica Europea, e poi estesa a quelli entrati successivamente nell’Unione Europea. Eppure è ancora oggi necessario ribadirlo, perché i fantomatici “dazi interni” sono apparsi nei titoli di numerosi quotidiani italiani, in testa agli articoli di un intervento della Presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, a un incontro di Confindustria. La Presidente ha detto che l’Europa deve avere “il coraggio di rimuovere quei dazi interni che si è autoimposta in questi anni”. Ma che cosa voleva esattamente dire?
Col termine equivoco di “dazi interni” s’intendono i costi causati, nel commercio intra-europeo, da burocrazie e frammentazione normativa. Per esempio, si tratta di regolamenti nazionali divergenti, norme tecniche non uniformi, procedure amministrative complesse, autorizzazioni difficili da ottenere. Un termine usato tra addetti ai lavori, ma che portato fuori da questo contesto – come avvenuto in questi giorni - genera confusione e disinformazione, soprattutto in un periodo in cui si parla dei veri dazi.
In concreto, questi ostacoli possono ostacolare il libero scambio all’interno della UE perché possono causare maggiori costi per produttori o commercianti quando vendono le loro merci in un Paese terzo. Per esempio, regolamenti tecnici diversi tra un Paese e l’altro possono costringere un produttore ad adattare o rivedere i propri prodotti per ogni mercato nazionale, con costi e tempi che aumentano sensibilmente. Anche la burocrazia gioca un ruolo decisivo: le procedure per ottenere licenze, certificazioni o autorizzazioni variano da Stato a Stato, e le differenze nei sistemi fiscali o nei requisiti amministrativi creano ulteriori difficoltà, soprattutto per le piccole e medie imprese, che non sempre dispongono delle risorse per gestire questa complessità.
Esistono anche forme di protezionismo mascherato. Alcuni Governi, pur rispettando formalmente le regole europee, introducono norme che avvantaggiano i produttori locali rispetto a quelli stranieri. Accade, ad esempio, negli appalti pubblici o nei sistemi di certificazione, dove i criteri richiesti sembrano favorire le imprese nazionali. Altre difficoltà emergono dalle dipendenze energetiche o dall’accesso a materie prime critiche, che rendono alcune filiere industriali più vulnerabili e meno competitive rispetto ad altre, creando squilibri economici tra i diversi Stati membri. Anche il sistema fiscale frammentato, con aliquote Iva e imposte indirette che variano da Paese a Paese, può generare distorsioni e ostacolare il commercio transfrontaliero.
I problemi si manifestano concretamente in numerosi settori. Nel comparto elettrico ed elettronico, nonostante la marcatura CE, restano differenze tra Paesi per quanto riguarda prese, tensioni e requisiti di compatibilità elettromagnetica, costringendo i produttori a realizzare varianti specifiche o a ottenere certificazioni aggiuntive. Anche nel settore automobilistico, le diverse regole sull’immatricolazione e sulla tassazione in base alle emissioni rendono meno attrattiva l’esportazione di certi modelli. Nei prodotti alimentari, le normative sull’etichettatura possono variare sensibilmente, imponendo la traduzione in lingue locali o l’adattamento a requisiti specifici, anche quando il contenuto del prodotto resta invariato. Nei materiali da costruzione, infine, un prodotto certificato in un Paese può non essere immediatamente riconosciuto in un altro, obbligando a ulteriori test e verifiche.
Le difficoltà amministrative si riflettono anche negli adempimenti fiscali. Le aziende devono confrontarsi con procedure Iva diverse in ciascun Paese, e la complessità dei sistemi nazionali rallenta le operazioni e richiede investimenti rilevanti in risorse e consulenze. Negli appalti pubblici, pur esistendo regole europee che impongono trasparenza e concorrenza, i requisiti burocratici nazionali possono scoraggiare la partecipazione di imprese straniere. Infine, sebbene gli aiuti di Stato siano soggetti a rigide regole europee, esistono forme di sostegno legittime, come agevolazioni fiscali o sussidi alla ricerca, che finiscono per favorire alcune imprese rispetto ad altre, creando squilibri tra i diversi mercati nazionali.
La Presidente del Consiglio ha quindi messo in evidenza un problema reale, ma si è dimenticata di precisare che anche l’Italia mette in pratica questi ostacoli e la loro rimozione dipende dal Governo. Per esempio nel settore alimentare, dove l'Italia impone requisiti specifici di etichettatura per determinati prodotti, richiedendo informazioni aggiuntive rispetto a quanto previsto dalla normativa europea. Queste richieste possono includere dettagli sulla provenienza degli ingredienti o indicazioni nutrizionali supplementari, che, sebbene mirate a garantire una maggiore trasparenza per i consumatori, possono rappresentare un ostacolo per i produttori esteri che desiderano esportare in Italia, costringendoli a modificare le loro etichette o a sostenere costi aggiuntivi per conformarsi alle normative locali.
Nel settore dei materiali da costruzione, l'Italia ha talvolta richiesto certificazioni o test aggiuntivi per prodotti già conformi agli standard europei. Per esempio, un tipo di cemento o di mattone certificato in un altro Stato membro potrebbe necessitare di ulteriori verifiche per essere utilizzato in Italia, rallentando i tempi di commercializzazione e aumentando i costi per i produttori stranieri.
Anche nel campo dei servizi professionali, l'Italia ha posto alcune restrizioni. Professionisti qualificati in altri Stati membri, come architetti o ingegneri, possono incontrare difficoltà nel far riconoscere le proprie qualifiche in Italia, dovendo affrontare procedure burocratiche complesse o requisiti aggiuntivi, nonostante esistano direttive europee che mirano a facilitare il riconoscimento reciproco delle qualifiche professionali. Basti pensare all’obbligo d’iscrizione agli Albi.
Ovviamente si può obiettare che uno sfrondamento unilaterale dei “dazi interni” italiani porterebbe svantaggi solo agli operatori della Penisola, ma ovviamente lo stesso varrebbe per gli altri Paesi. Meloni vorrebbe che se ne occupasse “l’Europa”. Ma come? I poteri dell’Unione hanno dei limiti all’interno dei singoli Paesi e paradossalmente gli stessi sovranisti – fronte in cui s’iscrive la Presidente del Consiglio – pretendono che siano mantenuti, anzi che debbano essere aumentati. Quindi, quale è la reale linea del Governo: concedere più potere a Bruxelles per spianare gli ostacoli alla libera circolazione delle merci, oppure restituire maggiore autonomia a Roma?