«Abbandoniamo la linea dell’autonomia finanziaria, le casse dello Stato non se la possono permettere». Con queste parole, poi parzialmente rettificate dicendo che «l’autonomia finanziaria e funzionale delle Autorità Portuali dev’essere il perno di un processo di riforma del settore», il sottosegretario al Ministero dei Trasporti, Rocco Girlanda (intervenuto per “rimediare” all’assenza del Ministro Lupi), ha gelato la platea del convegno organizzato dalle tre associazioni nazionali degli spedizionieri (Fedespedi), degli agenti marittimi (Federagenti) e dei porti (Assoporti) per rilanciare la logistica e la portualità italiana.
Il cluster marittimo italiano è in guerra con il Ministero dell’Economia perché non intende concedere alle Autorità Portuali italiane quell’autonomia finanziaria che significherebbe trattenere l’1% (165 milioni di euro) del gettito fiscale totale (pari a 16,5 miliardi) generato annualmente dalle merci in entrata e uscita dai porti.
Il Ministero dei Trasporti, per la verità, avrebbe voluto concedere un’autonomia finanziaria all’1% quest’anno e del 2% a partire dal prossimo anno ma il dicastero di Fabrizio Saccomanni ha bloccato il provvedimento concedendo solo di alzare da 70 a 90 milioni di euro il tetto massimo di autonomia finanziaria concessa ai porti.
Ecco perché il presidente di Assoporti, Luigi Merlo, al sottosegretario Girlanda ha detto: «Non chiediamo l’elemosina, valiamo 16,5 miliardi di euro. Il Ministero dei Trasporti ci deve difendere di fronte al Ministero del Tesoro. Siamo disponibili a ripensare la riforma della legge portuale 84/1994 ma dobbiamo sapere concretamente quali sono le alternative all’autonomia finanziaria». Merlo ha anche proposto di trasferire alle port authority il demanio portuale per patrimonializzarlo a vantaggio delle stesse Autorità portuali così come già avvenuto nei porti francesi ma dal sottosegretario, come risposta, è arrivato un invito «a sedersi attorno a un tavolo per trovare una soluzione».
Anche Franco Bassanini, presidente di Cassa Depositi e Prestiti, auspica che si possa avere un «quadro normativo chiaro e omogeneo per rendere più appetibili ai fondi pubblici e privati gli investimenti in infrastrutture portuali. Per fare questo, però, ci vogliono condizioni del fare e certezza della redditività».
L’autonomia finanziaria degli scali o il trasferimento del demanio alle Autorità Portuali rappresenterebbero oggi due alternative per rendere appetibili anche quegli investimenti come le dighe o i dragaggi dei fondali su cui il privato non ha interesse a investire perché non generano un ritorno economico diretto.
Un indirizzo su come dovrà essere la prossima riforma dei porti è stato dato da Enrico Seta, responsabile della segreteria tecnica del Ministro dei Trasporti: «Se le Autorità Portuali vogliono davvero cambiare la 84/1994 presentino una riforma basata su linee chiare e univoche. La precedente bozza arenatasi in Parlamento non teneva in considerazione né la concentrazione del mercato cui stiamo assistendo né le nuove indicazioni arrivate da Bruxelles sulle reti Ten-T».
Assoporti, Federagenti e Fedespedi possono dunque ripartire da qui e dalla consapevolezza del peso economico che l’industria dei trasporti riveste in Italia.
Secondo i dati ripresi da Ambrosetti European House il cluster marittimo rappresenta il 2,6% del Pil (pari a quasi 40 miliardi di euro), 213.000 sono gli occupati diretti impiegati complessivamente, per ogni 100 nuovi impiegati dal settore logistico-portuale vengono attivate 173 nuove unità di lavoro nell’economia, mentre per ogni 100 euro di nuovi investimenti o di domanda aggiuntiva di nuovi servizi, vengono generati 237 euro di ricchezza complessiva per il Paese.
Attraverso i porti italiani passano infine il 55% delle merci esportate extra-Ue e il 30% del totale delle esportazioni italiane mondiali. Secondo Ambrosetti se l’Italia si allineasse alla media UE nei tempi di sbarco e imbarco, il commercio internazionale del nostro Paese potrebbe aumentare di circa 50 miliardi di euro.
Nicola Capuzzo
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