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    Conseguenze nella logistica dell’abolizione in Usa del de minimis

    Dal 2 maggio 2025, gli Stati Uniti hanno abrogato l’esenzione doganale nota come de minimis, che consentiva l’ingresso di beni di valore inferiore agli 800 dollari senza l’applicazione di dazi. La misura, introdotta in passato per snellire il trattamento doganale delle piccole spedizioni, è stata eliminata dall’amministrazione Trump con l’obiettivo dichiarato di contrastare il ruolo della Cina nella crisi degli oppioidi sintetici. Ma al di là delle motivazioni geopolitiche, la decisione ha già innescato una serie di conseguenze operative, economiche e commerciali che stanno ridisegnando le dinamiche del commercio internazionale, in particolare nel settore del commercio elettronico transfrontaliero.

    Nei porti e negli aeroporti statunitensi si registrano i primi segnali di congestione. Il volume di pacchi in attesa di essere processati è in costante aumento, e gli operatori segnalano ritardi significativi. Il Customs and Border Protection, che prima dell’abolizione gestiva circa quattro milioni di spedizioni de minimis al giorno, si trova ora a dover applicare dazi e controlli su ciascuna di esse. Secondo Oxford Economics, l’agenzia doganale statunitense soffre già di una carenza di personale stimata in cinquemila unità e avrebbe bisogno di reclutare e formare fino a 22mila nuovi funzionari per far fronte al nuovo carico di lavoro.

    Le conseguenze non si limitano al solo apparato pubblico: anche i grandi corrieri internazionali - come Ups, FedEx e Dhl - devono ora adattare i propri sistemi per raccogliere e trasmettere nuovi dati doganali, mantenere cauzioni e garantire il corretto versamento dei dazi secondo procedure inedite. La complessità delle nuove regole si traduce in costi operativi più elevati e in ritardi nei tempi di consegna.

    Il cambiamento normativo colpisce naturalmente anche le imprese esportatrici straniere, in particolare quelle di piccole e medie dimensioni, che basavano la loro competitività sulla possibilità di spedire direttamente ai consumatori americani senza oneri doganali. Secondo Cindy Allen, Ceo della società di consulenza Trade Force Multiplier, molte di queste aziende hanno semplicemente scelto di ritirarsi dal mercato statunitense. Il caso del marchio canadese di lingerie Understance è emblematico: una spedizione da 59 dollari diventerebbe, con l’applicazione dei nuovi dazi e delle spese doganali, un acquisto da oltre 150 dollari. Di fronte a tali cifre, la decisione di sospendere le spedizioni verso gli Stati Uniti è apparsa inevitabile.

    Le imprese che hanno deciso di rimanere attive sul mercato americano hanno dovuto reagire rapidamente, alzando i prezzi per coprire i costi aggiuntivi. Il rivenditore britannico Oh Polly ha aumentato i listini negli Stati Uniti del 20%, mentre per piattaforme come Shein e Temu si stimano rincari tra il 15% e il 25%. Secondo Bloomberg, una semplice maglietta da 10 dollari potrebbe ora costarne 12 o 13, a cui si aggiungono le commissioni di intermediazione doganale. L’aggravio complessivo per i consumatori americani, secondo diverse stime, potrebbe oscillare tra gli 8 e i 30 miliardi di dollari all’anno.

    Il nuovo scenario ha spinto molte aziende a ripensare le proprie filiere logistiche. Alcuni operatori stanno riducendo l’uso del trasporto aereo, più rapido ma anche più costoso, in favore di spedizioni marittime consolidate. Altri stanno investendo nella creazione di piattaforme logistiche all’interno degli Stati Uniti, per importare merci in volumi maggiori, pagare dazi una sola volta e distribuire i prodotti direttamente dal territorio americano. Questa strategia vuole evitare l’onere di dover tassare ogni singolo pacco destinato al consumatore finale. Erik Rosica, dirigente dell’Oec Group, ha confermato che molti clienti stanno modificando in profondità le proprie modalità di approvvigionamento, orientandosi verso soluzioni più strutturate e meno vulnerabili alla nuova normativa.

    Anche sul piano dell’occupazione le ricadute iniziano a farsi sentire. Ups ha annunciato il taglio di circa 20mila posti di lavoro entro fine anno e la chiusura di 164 impianti, citando un generale mutamento delle condizioni economiche. Sebbene l’azienda non abbia collegato ufficialmente tali misure all’abolizione del de minimis, la coincidenza temporale con l’introduzione delle nuove regole doganali è perlomeno sospetta.

    Non va meglio sul mare, perché il sistema portuale americano si prepara a un calo sensibile dei volumi di traffico. Le previsioni indicano per il mese di maggio una flessione del 20,5% dei teu rispetto allo stesso mese del 2024, seguita da un -26,6% a giugno e un -27% a luglio. Dati che riflettono non solo il rallentamento degli scambi con l’Asia, ma anche l’incertezza con cui molti operatori stanno affrontando la nuova realtà commerciale.

    Una misura apparentemente tecnica come l’abolizione del de minimis sta quindi generando effetti strutturali su logistica, consumi e strategie aziendali. In un contesto già segnato da tensioni geopolitiche e riconfigurazioni delle filiere produttive, l’iniziativa statunitense contribuisce ad accelerare un processo di ristrutturazione del commercio internazionale, in cui efficienza e accesso diretto ai mercati rischiano di lasciare il passo a burocrazia, costi più elevati e crescente frammentazione delle reti distributive.

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